Negli ultimi anni si è molto parlato di influencer marketing (qui trovate un mio post di qualche mese fa), il ruolo degli influencer nelle strategie di marketing aziendali ha trovato ampio spazio e questo è, sì, avvenuto perché quando c’è una reale strategia dietro poi si riesce davvero ad avere dei ritorni interessanti, ma anche perché esso è diventato un trend ed in quanto tale molte aziende hanno deciso di seguirlo, spesso anche in maniera semplicistica facendo errori grossolani e sprecando budget per operazioni inutili.
C’è da dire che per molti ricorrere all’ influencer marketing può risultare un’operazione semplice all’apparenza: io titolare di una qualsiasi attività ingaggio un sedicente influencer che a sua volta, con una foto ed un tag, mi getta nella fossa dei suoi follower (che chissà, in qualche minima parte potranno magari essere interessati al mio prodotto/servizio).
Proprio mentre ero intento a scrivere questo post mi è capitato di leggere una riflessione interessante di Valentina Vellucci –qui trovate il post completo- di cui vi riporto un passaggio di seguito:
“È proprio per questo che l’influencer marketing piace: perché rompe le regole del brand e fa il miracolo. Regala anche ai brand più impensabili quel tenebroso elisir taffesco, guilty pleasure anche dei più insospettabili social media manager, con l’effort di non dover nemmeno applicarsi quel “rido/non rido” e assumersene le conseguenze sui propri canali. Ci pensa l’influencer. Tutto avviene sui suoi canali, lo show si consuma sulle sue piattaforme e se proprio va male rimuoviamo il tag, perchè tanto, lo sappiamo tutti, che poi la memoria dell’utente si resetta automaticamente.
Uno show perfetto, fatto di “awareness”, agenzie che inviano comunicati stampa sui loro stessi successi facendosi un autopat pat sulla spalla per complimentarsi delle coraggiose scelte prese. In un crescendo di egoriferimento che culmina con la tortura dei numeri, prelevati a caso, giusto perché quando si mettono un po’ di numeri in un titolo tutto diventa scientificamente esatto. “
Prima dei social network c’erano i testimonial (attori, volti tv o sportivi) che legavano la loro immagini ad un brand quasi in maniera esclusiva. (Del Piero – Uliveto, Gerry Scotti – Riso Scotti, etc). Oggi è più difficile vedere operazioni del genere, molte aziende realizzano iniziative coinvolgendo influencer che a conti fatti offrono i loro servizi, la loro “immagine”, a decine, centinaia di aziende. Spesso la loro comunicazione risulta davvero molto stucchevole, quasi vicino allo stile delle vecchie televendite.
Estremamente interessante, a questo proposito, sono anche le parole di Simone Ciaruffoli, Founder and CEO di BURGEZ, popolare catena di hamburgerie a Milano, di cui vi riporto un estratto del suo ultimo libro:
“Un influencer non è un brand anche se ha milioni di follower. Quello che di positivo puoi realizzare con un influencer è un engagement provvisorio semplicemente per via del cospicuo numero di persone che seguono quell’ influencer, ma non si creerà mai una reale affiliazione e reale amore per il tuo brand. Un brand non si compra. Se scegli la Ferragni il tuo ritorno sarà altissimo, ma non perchè lei sia un influencer, perché lei è un brand.
Ogni associazione in positivo tra due brand, porta un successo, per questo motivo McDonalds e Burger King, si cercano in continuazione facendo finta di scontrarsi.
Se sei un brand e dunque hai un carattere definito, una personalità, non c’è influencer che tenga.”
Ecco, trovo molto interessante questa riflessione perchè troppo spesso ci troviamo impelagati in inutili polemiche sui social a seguito di iniziative che vedono protagonista Chiara Ferragni, e questo accade perché ci si dimentica che la Ferragni non è una semplice influencer ma è un vero e proprio Lovemark, un brand talmente popolare che qualsiasi persona vorrebbe far parte di quella cerchia. E’ questo il vero motivo dietro la scelta della Ferragni: associare un’iniziativa a Chiara Ferragni vuol dire avere dei ritorni enormi.
Quando Evian lanciò sul mercato la linea di acqua in collaborazione con Chiara Ferragni vi furono, come sempre accade, immancabili polemiche; e intanto mentre le polemiche proliferavano quelle bottigliette d’acqua ad 8 euro diventavano introvabili, e il successo di quell’ iniziativa risiedeva tutto nella forza del brand Chiara Ferragni e nell’associazione dei due brand: Evian + Chiara Ferragni.
Era sbagliato vendere una bottiglietta d’acqua Ferragni a 8 euro? Assolutamente no, anzi se paragoniamo quell’acqua ad altre acque di lusso è anche economica. Quel prodotto andava semplicemente discusso per il fine per cui era stato pensato: una bottiglia da collezione, un’edizione limitata, un bene di lusso, un prodotto che ognuno poteva essere libero di comprare o meno senza togliere niente a nessuno.
In molti continuano a credere che Chiara Ferragni sia ancora la ragazzina che inonda i suoi canali social di foto e basta, senza voler ammettere onestamente quello che in realtà è riuscita a diventare grazie alla sua intuizione.
A mio avviso le recenti polemiche sulla visita agli Uffizi sono davvero imbarazzanti, dovremmo forse vietare a Chiara Ferragni di visitare un museo e promuoverlo? E poi sarebbe poi il caso che ogni commento avesse cognizione di causa. Prima di prendersela con gli Uffizi avremmo almeno dovuto contestualizzare il tutto e capire quale fossero le motivazioni e l’eventuale strategia di un’operazione del genere.
A questo proposito prendo in prestito le parole di Massimilano Zane, che riassumono la suddetta campagna più di quanto possa fare io:
“Sarebbe il caso che l’ operazione Vogue-Ferragni-Uffizi tornasse entro i confini di quel è e per cui era stata pensata: non un’ operazione di divulgazione culturale, ma un’ operazione promozionale e di mercato organizzata da Vogue Hong Kong che indirettamente coinvolgeva il museo. Se la si considera così, allora concentriamoci sul mercato cui ha guardato e sul target di riferimento di quella rivista di moda (Hong Kong, ma direi Oriente in generale) per il quale il contenuto culturale non è il primo driver d’interesse. Stando così le cose, le foto in sè sono perfette per promuovere una mostra su Botticelli (già calendarizzata ad HK) ed intercettare quel pubblico, anche stimolando la domanda a venire in Italia a vedere quelle stesse opere nella location originale. Voler inserire a forza nell’affaire altre questioni tutt’ oggi aperte nel settore (digitale/influencer VS musei/cultura, si no ni), non aiuta a risolverle, anzi…”
Dunque, molto più spesso di quel che crediamo noi sottovalutiamo o non riusciamo a comprendere il valore e la buona idea di alcune iniziative perché semplicemente non siamo in grado di percepirle.
E così può accadere che ti capitino in visita i Ferragnez, sì proprio loro, e che tu abbia un account Instagram con zero post che in un attimo arriva a 4000 follower, ma tu hai un sito web del genere.
Quanto vale un’occasione così andata persa?